Storie di Storia / 9. Diamanti. Le pietre del desiderio - la Repubblica

2022-07-01 18:01:15 By : Ms. Tinnie Lau

Il nono numero di Storie di Storia, la newsletter de La Repubblica, è dedicato al Diamante, una delle pietre più desiderate al mondo e la più preziosa esistente in natura. Questo minerale, la cui bellezza è nell’unicità in cui riflette la luce, trova origine nel mantello della Terra. Già dal III secolo a. C., nell’antica India, rappresentava il simbolo del soprannaturale perché considerato dono degli Dei. Possedere un diamante era segno di potenza, garantiva invincibilità nelle guerre e immunità dalle malattie, intensificava l’energia dell’individuo. Accanto a storie leggendarie, leggerete di diamanti insanguinati, utilizzati dopo essere stati estratti da bambini schiavi per finanziare guerre. Oggi le pietre preziose tornano d’attualità. L’invasione russa all’Ucraina ha spinto l’Unione europea, gli Stati Uniti, l’Australia, il Regno Unito, il Canada e tanti altri paesi a proporre di far togliere ai diamanti provenienti dalle miniere della Federazione Russa la certificazione “conflict-free”. Una decisione che se attuata potrebbe togliere alla Russia il primato di più grande produttore di diamanti e mettere a rischio il 25% della produzione mondiale. Buona lettura.

Le Lacrime degli Dei è il titolo di un libro scritto dal Professore Ciro Paolillo, docente presso l’Università “La Sapienza di Roma”, dove ha fondato un laboratorio di analisi e ricerche sulle pietre preziose. Storie di Storia, per gentile concessione della De Luca Editori d’Arte, pubblica alcuni estratti dell’opera scritta in collaborazione con Marco Letizi.

© De Luca Editori d’Arte, Roma

India. Miniera di Raulconda, Distretto del Sultano di Golconda, 1653

Nel timido albeggiare di quella mattina, Raju, insieme a tanti altri suoi confratelli nella miseria, si recò a scavare nelle pozze alluvionali di Raulconda, come avrebbe fatto ogni giorno fino alla successiva stagione dei monsoni. Era figlio di un povero guardiano di elefanti e sin da bambino si era guadagnato quel poco di riso che bastava a lui (e ora anche a sua moglie e ai loro quattro figli), scavando con mezzi rudimentali e pericolosi nelle fosse alluvionali al servizio del sultano, alla ricerca di diamanti, il cui valore enorme per lui non aveva significato alcuno. La stagione dei monsoni era finalmente terminata e la violenza dei venti e della pioggia avevano lasciato il passo al caldo torrido e all’elevata umidità, che rendevano faticosa ogni azione, finanche respirare. Mentre Raju setacciava nell’acqua della pozza più profonda, uno strano luccichio attirò la sua attenzione: era una pietra, più grossa di un pugno. Avvezzo a trovare diamanti che non superavano la misura di un’unghia, stava per liquidarla come semplice quarzo di poco valore. Ma potevano i riflessi del sole e dell’acqua torbida averlo ingannato? Forse era ancora intontito dal sonno. Con circospezione, senza dare modo ai suoi compagni di percepire che qualcosa di strano stesse avvenendo, maneggiò i contorni della pietra, sfruttando, per così dire, la sua “professionalità” di scavatore. Allora comprese. I monsoni non avevano solo portato distruzione, non avevano solo disgregato le gialle rocce vulcaniche: avevano anche deciso di consegnargli, in quel preciso giorno, un diamante di inaudite dimensioni. Poteva esserne sicuro, ora che tastava la tipica superficie poliedrica. Iniziò a fantasticare: il cibo quotidiano e abbondante per i suoi familiari, un palazzo a Madras – “la” città –, un futuro che andasse più in là del mero domani. Non più dolore per il suo corpo, non più lavoro. Si sentiva come un animale indennizzato dell’umanità sottrattagli per tutta la vita. Ma un’atavica tristezza scese a sfregiare questo idillio: come “intoccabile”, appartenente all’ultimo gradino della scala sociale, sarebbe mai riuscito ad essere accettato dagli altri? «C’è tempo per chiederlo agli dei», concluse. «Ora il futuro è la pietra: nasconderla e portarmela via». Era questo il suo piano: recuperare la pietra, scappare di nascosto, contattare qualche mercante in città per vendere il suo diamante. Neanche per un istante badò al tormento dei suoi cari, ai sospetti, alle dicerie delle malelingue. Per di più, se i guardiani dei lavoratori l’avessero sorpreso a trafugare un diamante, per lui sarebbe stata la morte, preceduta da torture e sofferenze. Ancora dolore. Forse l’avrebbero bruciato, per permettergli di rinascere, oppure lo avrebbero fatto sbranare dalle bestie, per condannarlo a una morte eterna. Ma tra la reincarnazione e l’eternità, Raju scelse il presente e con esso il rischio. Avendo cura di mantenere sul volto la vacuità della sua consueta espressione, nascose la pietra sotto uno strato più duro di fango, memorizzò il punto, e continuò a lavorare come ogni giorno. «Questa pietra è un regalo per me», pensò Raju, «è il mio tesoro, è un patto con gli dei». Quella notte, vinte le ore di comprensibile agitazione, riuscì infine ad addormentarsi. (…). Mentre era ancora buio, si alzò e uscì dalla sua capanna: ogni notte sarebbe stata un tormento se non avesse agito subito. I suoi occhi iniziarono ad abituarsi all’oscurità e le sue gambe si mossero velocemente: doveva fare in fretta. Giunto al fiume, iniziò a scavare nelle acque limacciose. Non ebbe bisogno di scavare anche nella sua memoria. Ricordava bene dove fosse il diamante e lo estrasse dal suo nascondiglio. Sembrava l’unica cosa visibile in quella notte silente. Puntò verso la giungla, il coltello in una mano, la pietra nell’altra. Non doveva pensare per non smarrire la generosa incoscienza del coraggio. Prese un ramo non troppo grande e lo strinse tra i denti, poi con il coltello iniziò a incidere la coscia destra lungo quindici, interminabili, centimetri riuscendo comunque a non gridare. Il ramo era in procinto di cedere, il sangue usciva copioso. Poi, sempre senza fermarsi per evitare di crollare, ripose quella pietra tremenda nella coscia e per prevenire le infezioni ricoprì la ferita con un muschio che cresceva alla base dei funghi, ancora numerosi dopo la stagione delle piogge. Per ultimo, cinse forte la coscia con una foglia di banano, lasciò cadere il ramo e si sedette un istante a riposare. Fu allora che il dolore lo investì, nella gamba e dentro la testa. Ma ormai lo aveva sconfitto. L’unico dazio sarebbe stata un’altra notte insonne nella sua capanna. Nei giorni seguenti condusse la solita vita, lavorando dall’alba al tramonto. Stare sotto quell’infernale calura, con brividi di freddo e dolori lancinanti, era un tormento, e lo era ancor più non potervi dare sfogo con nessuno. Di notte poi erano i demoni che insidiavano la sua coscia e con attrezzi infernali la sventravano, mentre lui assisteva in uno stato di dolorosa ma catatonica impotenza. Otto mesi impiegò la ferita per richiudersi, e così, quando i monsoni tornarono ad incombere nuovamente su ogni cosa, ponendo fine ai lavori stagionali alla miniera, Raju abbandonò per sempre Golconda, diretto a Madras, per cercare di imprimere una svolta alla sua vita. 

I tremiti e gli incubi erano passati da tempo, ma la gamba continuava a fargli male, regalandogli una andatura incerta e infelice, quasi un riflesso del suo stato interiore. Raju iniziò a frequentare ogni bettola di Madras, alla ricerca disordinata di un contatto con qualche mercante occidentale. Aveva saputo che un esperto francese, un certo Tavernier, era arrivato dall’Occidente per acquistare diamanti. Parigi infatti era divenuta il più importante cliente europeo per l’acquisto di diamanti, anche grazie al cardinal Mazzarino, loro grande estimatore; sotto Luigi XIV, fu lui ad istituire una scuola di taglio con artigiani italiani. La potenza economica francese non poteva però sottostare alla mercé dei commercianti portoghesi, che non rifornivano la corte di diamanti di rilevanti dimensioni e per di Nicolas più vendevano le pietre provenienti dall’India a prezzi altissimi. Così, il cardinal Mazzarino aveva deciso di mandare in India un uomo di fiducia e di prestigio, nonché esperto di diamanti, monsieur Tavernier appunto, che rimase nel paese per trent’anni, rifornendo la corte francese di splendide pietre. Nella sua candida ingenuità, Raju raccontava di possedere un diamante di proporzioni gigantesche e di essere disposto a cederlo in cambio di una nuova vita. Per sua buona sorte, nessuno sembrava disposto a credergli. Ma una sera, la sua storia fu ascoltata da un servitore di Amir Jumla, il primo ministro del sultanato di Golconda, cui non appena ne ebbe l’occasione, un mese dopo, egli riferì ogni cosa. Figlio di un povero mercante d’olio di Ispahan, Amir Jumla era riuscito in pochi anni a crearsi un’immensa fortuna commerciando in diamanti. Grazie alla sua competenza, era stato nominato ministro delle finanze dal sultano di Golconda, Abdullah Qutb Shah. Conservando per sé le pietre più preziose e consegnando al sultano solo quelle di minor valore, Amir Jumla aveva potuto accumulare un’ingente fortuna e crearsi un esercito personale, composto da cinquemila cavalieri, ventimila fanti e trecento elefanti. Lo stesso sultano temeva le sue efferatezze e il suo tradimento, che puntualmente avvenne, infatti, di lì a poco, quando Amir Jumla si mise al servizio del Mogol Shah Jahan. Prima di questi eventi, una notte, circa due mesi dopo l’arrivo a Madras, Raju si aggirava per le vie del porto, ormai senza più alcuna speranza. Come avrebbe potuto riprendere il lavoro nel fango sapendo di possedere una fortuna all’interno della sua gamba? L’aria fresca della sera non riusciva a sollevare il suo umore. Mentre si trascinava zoppicando tra intricate viuzze, due uomini al servizio di Amir Jumla lo aggredirono. Dopo averlo legato, lo trascinarono su un carretto e lo coprirono con delle stuoie di cocco. Viaggiarono per molte lune, ma Raju non sapeva dove stessero andando, né cosa volessero da lui quegli individui. Quando sostavano per riposare o ristorarsi, nessuno gli rivolgeva la parola. Anzi, se osava chiedere qualsiasi cosa, riceveva solo ceffoni, e così si risolse al silenzio per tutto il resto del viaggio. Dopo dieci giorni, in prossimità di un grande palazzo, Raju venne fatto scendere dal carretto. «Posso slegarti? Non mi darai problemi, vero?» disse uno dei suoi angeli custodi, quello con l’aria più minacciosa. «Non opporrò resistenza, vorrei solo sapere dove mi trovo» riuscì a rispondere Raju, troppo stanco e indolenzito anche solo per parlare. «Questo palazzo è del primo ministro Amir Jumla. Ricordati di inchinarti alla sua presenza». E Raju, scortato dai due uomini lungo le enormi stanze, quando arrivò al cospetto dell’insigne dignitario si inchinò. Fantasticò che tutto quel lusso e quelle ricchezze presto sarebbero state anche sue. «Forse ha saputo che ho una pietra preziosissima e mi ha fatto portare qui perché vuole acquistarla», pensò. «Così tu avresti un diamante molto grande e prezioso. Come ti chiami?» chiese Amir Jumla guardandolo dall’alto in basso. Ai lati del suo trono si trovavano due guardie. «Il mio nome è Raju. Sì, possiedo una gemma come non se ne sono mai viste» rispose continuando a capo chino. Era sicuro che non sarebbe riuscito a guardare negli occhi il suo interlocutore. «Bene, Raju. Vuoi dirmi dove tieni nascosto questo tesoro?». «Io… io ve lo dirò, e ve lo mostrerò anche, ma solo quando mi direte quanto siete disposto a pagarlo», riuscì a dire in un sussulto d’orgoglio. Il primo ministro sorrise, anche se Raju non poteva vederlo. Si alzò e scese i trenta gradini tra il trono e il pavimento. Lì si fermò. «Io adoro le pietre preziose, le ho sempre amate. Mi piace studiare la loro storia. Sai che i greci chiamavano il diamante “adámas”, l’inconquistabile? Sai perché? Perché nessuno sapeva come tagliarlo. Quando Marco Polo…». «Conosco la storia di Marco Polo! So che portò i diamanti in Occidente» intervenne Raju, e per la prima volta alzò il capo. Vide il primo ministro avvicinarglisi, poteva scrutarlo dal basso. Decise subito che quel volto sorridente gli ispirava fiducia, anche se i suoi occhi, neri come le tenebre più fitte, incutevano solo timore. (…) «Ti mostrerò la pietra. Ho bisogno di un coltello, ma non temere, non farò male a nessuno». Una guardia gli consegnò una lama e rimase lì vicino per assicurarsi che non avesse cattive intenzioni. Raju, senza alcuna esitazione, si incise la carne ed estrasse dalla coscia il diamante. Urlò di dolore e di soddisfazione: finalmente qualcuno, vedendolo, gli avrebbe prestato fede e l’avrebbe ricoperto d’oro. Amir Jumla non credette ai propri occhi e si ritrasse di un passo, sconvolto dalla grandezza della pietra, che, benché sporca di sangue, emanava una luce verde, trasparente. Tutto si svolse molto velocemente: Amir Jumla estrasse la scimitarra e la conficcò nel corpo di Raju. Egli lasciò cadere il diamante e cadde a sua volta con un’espressione di stupore. Ciò che vide, prima di chiudere gli occhi per sempre, fu lo scintillio del più grande diamante della storia indiana, quello stesso diamante che aveva causato la sua fine. Amir Jumla si piegò e recuperò la pietra. La fissava reggendola in mano, sperando che potesse parlargli, che lo aiutasse a scegliere fra due strade. Se l’avesse portata ad Abdullah Qutb Shah, questi l’avrebbe certamente ringraziato e l’avrebbe tenuto in più alta considerazione. Ma se l’avesse venduta, le sue ricchezze sarebbero notevolmente aumentate, così come il suo potere. Lentamente il diamante lo ispirò e Amir Jumla iniziò a formulare un piano diabolico.

Tutta la corte era riunita in una sala del palazzo del Mogol. Alla fine della cerimonia si sarebbe tenuto un imponente banchetto con musica e balli. L’occasione era solenne: Amir Jumla, inchinato davanti al trono del Mogol, stava per offrirgli un dono preziosissimo, accompagnato dal rullo del tamburo e dai fumi degli incensi. Le sue mani, alzate sopra la testa, facevano da trono a un diamante, che vi si adagiava imperioso. Secondo la tradizione, al di là dello stesso oggetto e della sua magnificenza, questa offerta simboleggiava il conferimento del privilegio dell’invincibilità in battaglia e dell’immunità verso qualunque malattia, ossia gli attributi di un vero dio in terra. Il Mogol, come in estasi, accompagnato dal boato della folla, che aumentava di intensità, prese la gemma e la sollevò verso il cielo guardandola rapito. «Ringrazio Allah per questo dono e per il potere che mi concede! Da qui in avanti questo diamante sarà conosciuto come Gran Mogol!». Da allora, anche l’autorità e l’influenza di Amir Jumla crebbero, dandogli modo di mettere in atto il piano che aveva così accuratamente studiato. Risiedeva a corte un celebre maestro veneziano, Ortensio Borgis, che aveva importato in India la sua arte di tagliare i diamanti con la loro stessa polvere per conferirvi maggiore brillantezza. Una notte, egli sentì bussare alla porta dei suoi appartamenti e, meravigliato per l’ora tarda, andò ad aprire con circospezione. Vide un uomo incappucciato che gli chiese di poter entrare. «Chi siete?», chiese Borgis spaventato. L’uomo entrò di prepotenza e poi si tolse il cappuccio, rivelando il suo volto. Era Amir Jumla. Intimò ad un ormai rassegnato Ortensio di sedersi intorno al tavolo che dominava l’ambiente. Una candela illuminava la stanza. «Come mai il cappuccio? E cosa volete da me a quest’ora?». «Nessuno deve sapere che sono venuto qui. Devo affidarvi un compito molto importante che solo voi con la vostra abilità potete portare a termine». «Non credo di potervi aiutare. Sono molti anni che vivo in India e il mio sogno è quello di tornare nella mia Venezia a godermi la vecchiaia. Sono riuscito a mettere diecimila rupie da parte e tra pochi giorni m’imbarcherò su una nave della Serenissima che mi riporterà a casa». «Sapete che ho regalato al Mogol un diamante di grandi proporzioni?» domandò Amir Jumla che non sembrava dare alcun peso alle parole di Borgis. «Ho sentito parlare di un diamante di ben novecento “rati” [787,50 carati], ma in base alla mia esperienza ciò mi sembra impossibile», replicò Ortensio. La candela si stava consumando e allora si alzò per prenderne un’altra. L’accese badando a non volgere mai le spalle al suo sgradito ospite. Temeva che da quella aggressiva visita notturna avrebbe ricevuto solo guai. «Potete essere certo che le proporzioni sono quelle, l’ho regalato io stesso. Vi offrirete di tagliare la gemma. Grazie alla vostra competenza accetteranno subito. Dal grezzo ricaverete tre pietre: una più grande la consegnerete al Mogol e le altre due le darete a me. In cambio riceverete centomila rupie» disse Amir Jumla e si alzò. Per lui il colloquio era concluso. Ma Borgis lo bloccò sulla soglia. «Io sono sempre stato un uomo onesto, mai avido. Questo lavoro è rischioso, potrebbe mettere in pericolo la mia vita... e poi... io sono in partenza. Non accetto questo incarico e neanche il vostro compenso per quanto generoso». «Non avete capito. Io non vi sto chiedendo niente, vi sto solo dando un ordine. Altrimenti la vostra vita finirà stanotte stessa e potrete dire addio alla vostra amata Venezia» replicò Amir Jumla che, tiratosi su il cappuccio, aprì la porta e sparì nella notte, non lasciando a Ortensio il tempo di obiettare. Dopo pochi giorni, Ortensio Borgis venne ricevuto dal Mogol e ottenne il compito di lavorare per dare nuova vita al Gran Mogol. Quando ritornò al suo laboratorio con la pietra, ebbe modo finalmente di osservare quel diamante. Era effettivamente maestoso, una piccola parte di stella, un capolavoro del creato. Le sue mani tremavano, la sua mente pur esperta era confusa, non riusciva a trovare la giusta serenità per lavorare. Poteva realmente violare un dono così grande? Per mesi amò quella pietra, la tenne fra le mani, la studiò, cercò di capirla, finché lei stessa si offrì a lui, gli chiese di minimizzare i suoi difetti e si lasciò vincere. Al termine del lavoro aveva ricavato tre magnifiche pietre: una rosa, grande e rotonda, “a forma di mezzo uovo di acqua purissima”, come ci tramanda il Tavernier, con una delicata colorazione verde-azzurra, una lieve intaccatura alla base e un altrettanto piccolo cristallo interno del peso totale di 280 carati; una grande rosa ovale, pervasa da un vago grigiore, con una sfaccettatura mal definita nella parte superiore e con due sfaldature, una più grande e una più piccola, del peso di 186,16 carati, nella parte inferiore; infine, una magnifica goccia sfaccettata alla maniera indiana di 47,50 carati, che emanava una luce intensa, quasi abbagliante. Ortensio era soddisfatto del suo lavoro, da grande maestro aveva trasmesso vita alla materia, era riuscito a dare il contributo umano alla creazione della natura. Si inorgoglì al pensiero che la sua opera avrebbe superato il tempo dei mortali, affidando il suo nome alla Storia. Consegnò, come da accordi, le due pietre a Amir Jumla e la più grande al Mogol. Quest’ultimo, però, rimase molto deluso dal suo lavoro a causa dell’eccessiva perdita di peso del diamante. Lo fece fustigare e gli sequestrò tutti i suoi averi. La notte stessa Ortensio si trovò da solo nelle sue stanze, prosciugato d’ogni energia vitale. Tutto era finito: non avrebbe più potuto rivedere l’amata Laguna. Nel buio più assoluto, senza neanche il conforto di un raggio lunare tra le persiane, gli sembrò di scorgere il beffardo fantasma della pietra grezza che gli aveva rubato l’anima. «Ora comprendo perché i greci e i romani chiamavano i diamanti “lacrime degli dei”», annotò all’albeggiare nel suo diario. (…). Il sole si ergeva ormai alle altezze della volta celeste quando Ortensio Borgis ingerì una grande quantità di polvere di diamanti e pose fine ai suoi giorni.

La collocazione attuale del Gran Mogul è sconosciuta e alcuni ritengono che il diamante Orlov o il Koh-i-noor possano essere stati tagliati da questa pietra dopo la sua perdita in seguito all'assassinio del suo proprietario, N?der Sh?h, nel 1747. (Fonte Britannica.com).

In un tardo pomeriggio del gennaio 1905, al tramonto, Frederick Welles, direttore di superfice della miniera Premier Mine, nella colonia del Transvaal – oggi Sudafrica – nota un oggetto luccicante sulla parete ascesa della miniera che catturava i fiochi raggi del sole. Sospetta che qualcuno abbia per scherzo infilato un pezzo di vetro, scala la parete…ed estrae un diamante enorme, il più grande diamante grezzo mai ritrovato, con un peso di 3.106,75 carati. La scoperta suscita clamore in tutto il mondo e a quella pietra preziosa viene dato il nome di Cullinan, in onore del presidente della miniera. A causa della superfice liscia su un lato, si sparge la notizia che il diamante faccia parte di una pietra ancora più grande e che esista “una seconda metà”, che non verrà però mai ritrovata. Si dice anche che Frederick Welles sia stato ricompensato con 10.000 dollari per quel ritrovamento, ma anche questa notizia non sarà mai confermata. Il diamante Cullinan è inizialmente esposto alla Standard Bank di Johannesburg prima di essere spedito in Inghilterra. La sicurezza rappresenta un problema ed è organizzata una nave civetta scortata, mentre il diamante autentico, dopo essere stato assicurato, è spedito via posta. Entrambi arriveranno a destinazione senza alcun problema. Raggiunta Londra si iniziano a cercare compratori, ma invano. Due anni dopo, nel 1907, dietro suggerimento del Primo Ministro generale Louis Botha, il Governo del Transvaal acquista la pietra dalla Premier Mine per 150.000 sterline. Il diamante è donato a re Edoardo VII per il suo 66° compleanno, quale “simbolo della fedeltà e del legame dei sudditi del Transvaal alla persona e al regno di Sua Maestà”. Il Cullinan è affidato a Scotland Yard fino al completamento delle negoziazioni per il suo taglio. L’anno dopo la pietra è portata ad Amsterdam per essere tagliata dalla celebre ditta Asscher dopo che un gruppo di persone – tra cui il direttore della miniera e tre membri della famiglia Asscher – riuniti nella Jewel House avevano deciso che il diamante sarebbe stato inserito nello scettro del Sovrano. Dai primi due tagli si ottengono tre pietre: le due più grandi diventano il Cullinan I (530,2 carati) e il Cullinan II (317,4 carati). Per le operazioni di taglio e levigatura si impiegano tre uomini che lavorano 14 ore al giorno per otto mesi. Produrranno nove grandi diamanti (Cullinan I-IX), 96 piccoli brillanti e 9 carati di frammenti grezzi, con una perdita di peso del 62,25 per cento. Il Cullinan I e II, sono chiamati “Stella d’Africa” e “Seconda Stella d’Africa”, donati formalmente al Re ed esposti nella Torre di Londra. La maggior parte delle altre pietre rimarrà agli Asscher quale ricompensa per il lavoro svolto. Edoardo VII acquista il Cullinan VI come regalo per la regina Alessandra, mentre le altre pietre sono acquistate dal Governo del Transvaal e poi donate alla regina Maria. Dopo la morte del Re, suo figlio Giorgio V farà inserire il diamante Cullinan I nello scettro del Sovrano e il Cullinan II nella fascia anteriore della Corona Imperiale di Stato. Oggi le pietre Cullinan III e IV, chiamati scherzosamente “le schegge” dai membri della Royal Family, fanno parte di una spettacolare spilla indossata dalla regina Elisabetta II.

Ernest Sesay nativo di Bumbuna in Sierra Leone vive da anni nella capitale Freetown. Presiede la Family Home Movement, fondata da Padre Giuseppe Berton, oggi parte del network di organizzazioni di Fondazione AVSI, che riceve in affido bambini abbandonati e offre asilo a vedove di guerra, giovani tossicodipendenti e ragazze madri. Nel 1999, nei momenti terribili della guerra civile, Ernest è rapito dai ribelli del Fronte Rivoluzionario Unito (R.U.F.) che eliminavano gli studenti universitari e rapivano i bambini per farne dei guerriglieri. Riuscito a scappare entra nella Family Home dove oggi porta avanti il lavoro di Padre Berton, colui che ha cambiato la sua vita. È preside di quattro scuole con un totale di più di duemila studenti. Ha risposto alle domande di Storie di Storia dal suo ufficio di Freetown.

Che significato hanno i diamanti per la Sierra Leone?

«I diamanti sono la più grande ricchezza del mio Paese. Tutto il mondo pensa alla Sierra Leone quando pensa ai diamanti. Potrei dire che sono una benedizione di Dio, diventata maledizione. Questa ricchezza è stata sfruttata da tanti. Durante la colonizzazione inglese innumerevoli pietre preziose sono state portate via da qui, ma non c’è stato nessun arricchimento della nostra gente, tranne che per pochissimi. Anni dopo proprio i diamanti che avrebbero potuto cambiare le nostre vite sono stati tra le cause di una terribile guerra civile. Venivano utilizzati per comprare armi e per finanziare la guerra».

 Come diventano protagonisti della guerra civile?

«I grandissimi guadagni provenienti dalla vendita dei diamanti finanziava entrambi i contendenti nella guerra civile. Il controllo delle aree ricche di miniere era l’obiettivo dei belligeranti. Le pietre preziose servivano per l’acquisto delle armi. Sono stato in un centro di recupero per bambini soldato. Rapiti, drogati, addestrati, erano poi arruolati con la forza nelle milizie ribelli del R.U.F. Ricordo i loro racconti. Parlavano di elicotteri che atterravano nei loro campi e portavano armi e diamanti. Anche i soldati britannici che collaborarono alla sconfitta dei ribelli trovarono negli accampamenti tantissimi diamanti nascosti in bottiglie. Il diamante era l’unico grande strumento che potesse finanziare la guerra. Credo che il film Blood Diamond con Leonardo DiCaprio ricostruisca bene la questione».

Ha avuto un esperienza diretta con i diamanti?

«Fui rapito dai ribelli. Avevo 18 anni erano appena entrati a Freetown. Ero certo di essere ucciso. Un capo militare liberiano, molto conosciuto al tempo della guerra, mi prese stranamente in simpatia. Non so perché... Mi affidò una grande borsa, una valigetta di colore verde. Conteneva qualcosa di molto prezioso. Non sapevo cosa fosse, ma mi fu chiesto di portarla sempre con me. In qualsiasi luogo stesse o andasse questo militare, io dovevo essere con lui e custodire la borsa, persino mentre dormiva. Trascorsi così due settimane con lui. Un giorno attaccarono il campo in cui eravamo e io riuscii a mettermi in salvo scappando e nascondendomi in un bosco. Abbandonai quella borsa. Entrando in un villaggio venni a sapere da alcune persone che il capo militare liberiano e i suoi soldati erano disperati e mi cercavano per quella valigia convinti che l’avessi rubata. Fui fortunato, non mi trovarono, mi avrebbero certamente ammazzato. Non ho mai saputo cosa contenesse, ma resto convinto che ci fosse tutta la ricchezza di quell’uomo in diamanti».

Che ricordi hai dei racconti che ti facevano i bambini soldato?

«Proprio mentre ti parlo ho qui vicino a me un ragazzo chiamato Crazy… pazzo davvero. Ha una storia speciale. Aveva 10 anni il giorno in cui l’hanno rapito. Per farlo diventare un ragazzo senza paura, i ribelli lo drogano e lo fanno assistere al massacro di tutti i suoi parenti. Lo addestrano alla violenza più terribile. Diventa capo di una milizia e con altri ragazzi attacca il suo villaggio, brucia case, ammazza persone che conosce personalmente. Finita la guerra si rifugia nella giungla. Proviamo ad aiutarlo a reinserirsi nel suo villaggio, ma nessuno lo vuole. È a quel punto che lo accogliamo nel nostro centro e, anche se nei primi tempi continuava ad essere protagonista di risse, in sei, sette anni, siamo riusciti a recuperarlo con il nostro amore. Oggi è sposato, ha due figli, un lavoro. Viene spesso a trovarci e ogni tanto comincia a farsi rivedere nel suo villaggio. Non è possibile comprendere cosa abbiano vissuto questi ragazzi». 

Oggi qual è la realtà dei diamanti in Sierra Leone?

«Deludente. Ci sono compagnie da tutto il mondo che cercano ancora diamanti in Sierra Leone. Ma non c’è nulla di nuovo nella vita della popolazione, la vendita dei diamanti non cambia la loro esistenza. Ahimè… 

Libro: Koh-i-nur. La storia del diamante più famigerato del mondo, di William Dalrymple e Anita Anand, Adelphi 2020.

Libro: Blood Diamonds: Tracing the Deadly Path of the World’s Most Precious Stones, di Greg Campbell, Westview Pr; 2002.

Film: Blood Diamond - Diamanti di Sangue. Diretto da Edward Zwick, con Leonardo DiCaprio, Djimon Hounsou, Jennifer Connelly. Stati Uniti d’America, 2006.

Museo: Diamond Museum Amsterdam. Fondato nel 2007 da Ben Meier della società olandese Coster Diamonds per presentare il mondo affascinante e mitico dei diamanti. E’ l’unico in Europa dedicato a questa pietra preziosa. Indirizzo: Paulus Potterstraat 8, 1071 CZ Amsterdam, Paesi Bassi - Telefono: +31 20 305 5300

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