Invece di esultare per i risultati alle elezioni, la sinistra dovrebbe preoccuparsi di chi non vota più - L'Espresso

2021-10-26 06:57:54 By : Mr. Valen Guo

L'astensione record dimostra una volta di più la distanza tra la società e la politica. La destra è in crisi, ma a preoccuparsi dovrebbero essere soprattutto i riformisti

Addio Lega, abbiamo scelto come titolo della nostra storia di una settimana fa. Un azzardo giornalistico, nel pieno di una domenica elettorale, eravamo pronti a essere smentiti dai risultati del voto. Abbiamo visto giusto. Gli elettori, in tanti, hanno detto addio al partito di Matteo Salvini, che aveva provato a espandersi fuori dai confini geografici e ideologici del vecchio Carroccio ereditato da Umberto Bossi.

Ora si trova in ritirata perfino a Milano, un misero dieci per cento nella capitale del Nord, un terzo del Pd che vola sulla scia del sindaco Beppe Sala e appena qualche pugno voti sopra i rivali interni al centrodestra Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni ( e del recordman preferenze di la Vittorio Feltri e del barone nero, l'indagato Roberto Jonghi Lavarini, che piazza in consiglio comunale sua candidata al centro dell'inchiesta di Fanpage e ora della procura di Milano).

Una batosta che spinge Salvini alla tentazione di un addio più clamoroso: uscire dal governo e dalla maggioranza che sostiene Mario Draghi e tornare all'opposizione. Per ora è un bagliore di lama, il Consiglio dei ministri sulla riforma fiscale disertato da tutti i ministri leghisti, a partire da quel Giancarlo Giorgetti che è tra i grandi sconfitti del turno elettorale. Ma c'è un altro addio che dovrebbe inquietare di più. L'addio, o l'arrivederci, dei cittadini alle urne. La metà più uno che non è andata a votare e che promette malissimo in vista dei ballottaggi di domenica prossima, dove grandi città e medi e piccoli comuni rischiano di ritrovarsi con sindaci più che dimezzati. Sindaci che vinceranno con la metà dei voti di un terzo o poco più dei loro elettori. Un deserto.

«Occorreva tenere un diario dello sfacelo di Roma, annotare mese per mese, anno per anno, diligentemente, le tappe della sua crescita obbrobriosa. Roma città inumana, inabitabile, omicida, espressione topografica dell'incultura pubblica e della inciviltà privata», scriveva Antonio Cederna sulle pagine del Mondo negli anni Cinquanta e Sessanta, in quegli articoli raccolti in “Mirabilia Urbis” da Einaudi. Cederna, nato cento anni fa, il 27 ottobre 2021, proseguì il suo impegno sulle pagine dell'Espresso. Bisogna tornare indietro per capire da dove arrivare il risultato della settimana scorsa nella Capitale e nel resto d'Italia. E poi tornare vicino, all'ultimo anno, agli effetti invisibili della pandemia.

Per orientarmi continuo a portare con me, come ideale guida al voto nella città di Roma, le mappe della disuguaglianza nella città curate dai ricercatori Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi ("Le sette Rome", Donzelli editore), la bussola migliore per comprendere perché il vuoto di rappresentanza sociale sia diventato un cratere politico nella capitale d'Italia in cui più di un elettore su due ha rifiutato di prendere parte al voto.

Le sette Rome sono la città storica del centro, la città ricca ad alto reddito e istruzione, la città compatta delle colate di cemento nelle vie consolari dove si concentra il 37 per cento degli abitanti, più di un milione, la città del disagio delle periferie , la città dei nuovi quartieri sorti attorno al Grande Raccordo Anulare, al confine con la campagna, dove è necessaria l'automobile. A queste va aggiunta la città che non si vede (e che non vota) di immigrati, disabili, anziani soli.

In questa enorme metropoli, concentrato di tutte le sfaccettature e contraddizioni italiane, ha risposto all'appello elettorale la città ricca, è rimasta a casa la città del disagio, dove la pandemia del Covid-19 si è trasformata in sindemia, l'amplificazione di tutti i mali storici, dalla scarsa prevenzione di malattie cardiocircolatorie e dell'obesità alla densità abitativa, provocando un numero medio di decessi da virus più alto che nel resto della città. Nel VI Municipio, quello delle Torri, Tor Bella Monaca e Torre Angela, ha votato il 42 per cento degli aventi diritto, dunque il 58 per cento è rimasto a casa, nei quartieri dove un anno fa, tra reddito di cittadinanza, reddito di emergenza , Naspi bonus Covid-19, 30mila cittadini tra i 15 ei 65 anni no di provvidenze (su 73mila). Eppure, al momento della presentazione delle candidature, si era registrato un record: 22 candidati a sindaco, 22 liste, 1800 candidati. Ho provato a dividerli per lo scarso milione di elettori che è andato a votare, 1.109.371 per l'esattezza. Fanno in media 616 elettori ogni candidato. Senza contare la valanga dei candidati nei quindici municipi, che farebbe aggiungere la media.

Più candidati che elettori, siamo vicini al paradosso letale. Non solo a Roma, perché i votanti sono più che dimezzati a Milano, Torino, Napoli. È la stessa sconfitta. Il voto non è più speranza, perché chi ha bisogno di un cambiamento a votare non ci va, il voto rischia di diventare un gioco di società o l'espressione di un interesse diretto.

Il giorno dopo le elezioni amministrative sono state depositate le firme per il referendum sull'eutanasia: un milione e 200mila. E il governo Draghi è andato avanti con la riforma fiscale, nonostante l'assenza dei ministri della Lega. È la fotografia dello stato di salute della nostra democrazia. Le firme, digitali e non, per una singola domanda mobilitano soprattutto i giovani più del voto tradizionale. Il governo, senza avere alle spalle una decisione legittimata dal voto popolare. E la rappresentanza è in crisi, ovunque e con qualunque sistema elettorale: doppio turno, turno unico, elezione diretta dei sindaci, preferenze e liste bloccate. A furia di sottolineare l'irrilevanza del cittadino-elettore il giocattolo si rompe. C'è l'incapacità generale dei partiti di select una classe dirigente all'altezza, con qualche notazione per il futuro. Nel Pd vanno i politici di professione, con una trafila nel partito e una esperienza amministrativa, Matteo Lepore a Bologna o Stefano Lo Russo a Torino, nel centrodestra sono stati meglio malissimo i candidati civici, con l'eccezione almeno per ora dello sconosciuto Enrico Michetti a Roma e con il risultato deludente dell'imprenditore Paolo Damilano.

Infine, a proposito di stato di salute della democrazia: passare in rassegna i candidati ai ballottaggi nei comuni capoluogo di provincia nel prossimo fine settimana significa fare una passeggiata sul monte Athos, notoriamente precluso a umani e altri animali di genere femminile, o chiudersi in un conclave per eleggere il nuovo papa, tra maschi anziani. Neppure una donna in rassegna, dopo tanti fiumi di parole sulla presenza femminile nei partiti e nelle istituzioni siamo di nuovo all'anno zero, con l'uscita di scena di Virginia Raggi e di Chiara Appendino nei capoluoghi di regione resiste solo Valeria Mancinelli ad Ancona , unica donna. Alla metà degli elettori che si auto-esclude dal voto corrisponde la metà femminile esclusa dalla possibilità di governare le città: offensivo che ora tutti i candidati in corsa si affannino a giurare che la loro vice sarà una donna.

Si può esultare per la débacle del sovranismo modello Lega e si può considerare una parentesi il boom dei voti per il Movimento 5 Stelle tra il 2013 e il 2018, in mezzo ci fu nel 2016 il trionfo di Raggi a Roma e Appendino a Torino, le ultime invenzioni di Gian Roberto Casaleggio. Ma c'è meno da gioire se la parentesi si chiude non perché il sovranismo e il popolo siano stati sconfitti nella società, ma per abbandonare il campo, per non avere la promessa di diventare protesta in governo.

La protesta non può essere liquidata come un fastidioso rumore di sottofondo, dopo il quale si torna alle conversazioni ovattate, incredibile che lo si faccia a sinistra. In quella desolazione elettorale c'è una domanda senza risposta che aspetta ancora di essere ascoltata, interpretata. È un'attesa che si trasforma in micro-rabbia. In quelle periferie che non vanno a votare c'è il mercato nero delle case, prolifera il traffico della droga fino a diventare un nuovo welfare di caseggiato, c'è l'aumento delle violenze e dei delitti familiari che vanno sotto il titolo di femminicidi , ma nulla di tutto questo è ottenuto nei dibattiti elettorali, pur essendo la questione più politica di tutti.

Il modello Draghi, l'establishment che si fa governo, si è confrontato in questi mesi con la gestione della campagna vaccinale e ora con l'uso dei fondi europei del Piano di Ripresa e di Resilienza, si muove sullo sfondo occidentale ed europeo: gli Stati Uniti di Joe Biden in arretramento dopo la ritirata in Afghanistan, l'Europa orfana di Angela Merkel. Ma non è richiesto del governo Draghi dare la risposta alla attesa di rappresentanza, che non è solo soluzione dei problemi, è anche ascolto, riconoscimento. Semmai si amplifica la delega, la voglia di lasciar fare al commissario, al competente, a chi sa dove mettere le mani. Ma il campo di chi fa politica non soltanto per trovare soluzioni ma offrire un canale di rappresentanza è una prateria.

Enrico Letta dovrà succedere la tentazione dell'auto-sufficienza e preoccuparsi di quella metà che non ha votato. Per ragioni di prudenza, perché alle elezioni politiche risvegliarsi e consegna al Pd un'altra lezione di realtà, come è accaduto in passato. E perché è dal circuito della rappresentanza che passa il successo delle tre operazioni più importanti della segreteria Letta. La ricostruzione di un partito e di una coalizione del centro-sinistra, su modello di quello vincente a Bologna che mette insieme Elly Schlein, Mattia Santori e Isabella Conti. La riscrittura dell'agenda di priorità: diritti sociali e civili insieme. Spostare l'asse del governo Draghi: dopo mesi in cui il Pd ha subito la presenza della Lega ora c'è la situazione opposta. E ancora una volta tutto ruota sulla scelta del prossimo inquilino del Quirinale.

Ci si può chiedere, alla fine, se sia ancora la politica il luogo in cui trovare alcune risposte di cui c'è bisogno. E ammettere che no, quel tempo è finito. Che oggi le due grandi invenzioni del Novecento democratico, il suffragio universale e l'opinione pubblica che si esprime nella libertà di stampa, sono due attrezzi superati dai tempi. Gli influencer contano più di un politico o di un giornalista, forse, ma una volta che si è preso atto di questa novità non cambiano le esigenze di sempre: controllare il potere, sottoporlo a critica, battersi perché sia ​​rappresentativo e democratico. E perché non brilli nel vuoto.

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